Domandina (finto) ingenua: quante sono le uve autoctone in Italia?
100, 200? Di più, di meno? Bene, reggetevi forte. Sono più di 500. Un’enormità!
Un patrimonio viticolo (pare) che non ha eguali da nessuna parte del mondo, e al quale solo pochi altri paesi, come il Portogallo, sembrano avvicinarsi.
Per sapere di più sull’argomento, o anche soltanto per divertirsi a giocare con amici e parenti appassionati di vino con domande tipo “Tu sai cos’è il Caddiu e dov’è coltivato? E il Vuillermin? E il Cornalin?” ci viene in aiuto un libro, opera di un noto wine writer, critico e formatore americano (ma con casa a Roma): Ian D’Agata. La sua ultima fatica si chiama infatti “Native Wine Grapes of Italy” (University of California Press) e al momento si trova solo in inglese, ma scommettiamo che è solo questione di tempo e arriverà anche la versione in italiano. Vale in ogni caso la pena dargli una scorsa: oltre 600 pagine che parlano di vitigni famosi, poco noti, sconosciuti, rarissimi.
Ma qual è la caratteristica principale delle uve autoctone? La loro relazione con il luogo nel quale si trovano, con il suolo, il clima, e ovviamente gli uomini che le coltivano. Tutto questo spesso riesce a tradursi in vini fortemente caratterizzati: ecco allora che un vino come il Friulano del Collio (GO) appare diverso da un San Martino della Battaglia (BS), anche se l’uva è praticamente la stessa. Basta infatti cambiare anche solo una o due delle molte variabili in gioco nella coltivazione di un vitigno – il suolo, il microclima, qualche pratica agronomica o di vinificazione – che anche il risultato finale cambia.
Il libro di D’Agata è perciò una specie di summa enciclopedica di questa ricchezza, il risultato dei suoi trent’anni o quasi di lavoro nel settore, e di 13 anni di ricerche, passeggiate in lungo e in largo nei vigneti italiani e interviste con la gente del vino.
Un libro insomma da regalare o da regalarsi, ma che non può mancare nella libreria di un vero appassionato.
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